Atti sessuali con minorenni: la telefonata in vivavoce registrata dai Carabinieri inchioda l’imputato

Nel caso esaminato dalla Cassazione (Cass. pen., dep. 8 marzo 2024, n. 10079), l’imputato era accusato di atti sessuali commessi a danno delle nipoti minorenni. Tra le prove che hanno portato alla condanna, risulta anche il contenuto confessorio della telefonata intercorsa tra l’uomo e la madre delle minori che era in vivavoce alla presenza dei Carabinieri.

Nell’ambito di un procedimento penale per compimento di atti sessuali con minorenni, è sorta la questione dell’utilizzabilità come fondamento della condanna dell’imputato – zio delle persone offese – delle dichiarazioni telefoniche di ammissione del fatto rese durante la fase delle indagini preliminari alla madre delle minori in vivavoce di fronte ai Carabinieri. La difesa ha lamentato infatti in Cassazione l’inutilizzabilità di tali dichiarazioni poiché rese in assenza delle garanzie previste per le intercettazioni. Impossibile, inoltre, sempre per la difesa, la qualificazione di dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria per l’assenza del difensore.

Il ricorso risulta inammissibile.

In primo luogo, la Corte sottolinea che il ricorrente non ha contestato adeguatamente la sentenza di condanna, dalla quale risultava che le dichiarazioni confessorie telefoniche non erano state decisive perché andavano a inserirsi in un quadro probatorio già cristallizzato dalle affermazioni delle vittime e dai video registrati dal fratello.

Il motivo di ricorso presenta inoltre profili di infondatezza in quanto le intercettazioni «consistono nella captazione occulta e contestuale di una comunicazione o conversazione tra due o più soggetti che agiscano con l’intenzione di escluderne altri o con modalità oggettivamente idonee allo scopo, attuata da soggetto estraneo alla stessa mediante strumenti tecnici di percezione tali da vanificare le cautele ordinariamente poste a protezione del suo carattere riservato». Al contrario dunque, la registrazione di una telefonata da parte di un soggetto che ne sia partecipe, o comunque che sia ammesso ad assistervi, non è riconducibile, nemmeno se eseguita di nascosto, alla nozione di intercettazione, «ma costituisce forma di memorizzazione fonica di un fatto storico, della quale l’autore può disporre legittimamente, anche a fini di prova nel processo secondo la disposizione dell’art. 234 c.p.p., salvi gli eventuali divieti di divulgazione del contenuto della comunicazione che si fondino sul suo specifico oggetto o sulla qualità della persona che vi partecipa».

Anche in tema di usura ed estorsione, ad esempio, è stato affermato che la trascrizione della conversazione intercorsa tra la vittima e l’imputato, portata a conoscenza delle forze dell’ordine per iniziativa della persona offesa mediante l’inoltro della chiamata in corso sull’utenza della polizia che provveda dunque alla registrazione tramite call recorder, costituisce una forma di memorizzazione fonica di un fatto storico, utilizzabile in dibattimento come prova documentale.

La Corte, confermando dunque l’applicabilità di tali principi anche con specifico riferimento al caso in esame e quindi alla registrazione della conversazione tenuta in vivavoce, dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente alle spese processuali.

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